Giuseppe Giannini, Il Principe di Roma e della Roma

Giuseppe Giannini, Il Principe di Roma e della Roma

Capitano dell'era di passaggio tra Di Bartolomei e Totti, fosforo a centrocampo arricchito da una sorprendente attitudine al gol

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Ai romanisti troppo giovani che non lo hanno visto dal vivo palla al piede, uno come lui dovrebbero raccontarlo i romanisti più maturi, premettendo che Giuseppe Giannini, sessant'anni oggi, ancora deve finire di riscuotere gratitudine, dal club e dal suo popolo. Ha cucito assieme, così come cuciva le trame di gioco che dirigeva, l'epoca di Di Bartolomei e quella di Totti, senza i loro allori ma con lo stesso senso di appartenenza: giù il cappello di fronte a chi, prima della propria carriera ha avuto a cuore la Roma.

 

 

L’inizio del Principe

 

Ragazzino in un pomeriggio d'inizio anni Ottanta, portamento già principesco – come sancito dal soprannome che Odoacre Chierico sceglierà per lui e che lo accompagnerà per tutta la carriera – e viso ancora imberbe, si ritrova, nel gorgo di un malinteso con Falcao, a causare un contropiede romagnolo verso Tancredi, che culmina con la rete di tale Antonio Genzano: Roma 0 - Cesena 1. Tra il Divino e l'esordiente, deve essere per forza stato quest'ultimo a sbagliare, non ci piove.

Comincia così, anche se è soltanto un assaggio della storia, la vita in giallorosso di Giuseppe Giannini, a testa alta anche sbagliando un retropassaggio.

Le epoche le fanno gli uomini ma le subiscono anche, secondo il dettato di un destino che le sceglie al posto loro, nella tensione eterna tra ciò che meritano e ciò che ottengono; per questo ci sono uomini che dalle epoche a cui sono appartenuti non hanno ottenuto quanto avevano meritato, nel chiaroscuro di quello che poteva essere e che, per mille motivi, non è stato. A risarcirli, almeno in parte, ci pensa la storia, quando si capisce che c'è anche un modo diverso, per scriverla: che non passa per le date incise nel marmo degli almanacchi. Perché alcune storie hanno saputo essere grandi per merito delle emozioni che sono state in grado di suscitare; perché ancora oggi la filigrana dei ricordi che fanno affiorare è pura, nitida, a maggior ragione quando non è l'urlo liberatorio del trionfo quello di cui si percepisce l'eco, ma lo strascico di rabbia e malinconia che lasciano le imprese sfiorate, l'orizzonte troppo distante delle ambizioni che non si riuscivano mai ad accarezzare.

 

Storia di un capitano della Roma

 

Ecco perché i capitani sono coraggiosi, non solo nei romanzi: perché hanno accettato di caricarsi sulle spalle il destino di tutta la ciurma, anche quando sentono che la sorte che avrebbero meritato non doveva essere quella che poi hanno vissuto, interpretato, addirittura incarnato. Spesso a un palmo dal sogno, quale che fosse, a volte quasi senza più bussola in mezzo alla tempesta, ma sempre col vessillo alto sull'albero maestro.

Il vessillo di Giuseppe Giannini è stata la maglia della Roma, lungo tutta una traversata che comincia con un errore, forse neanche suo, al timone, e che certamente, a una vita calcistica di distanza, non doveva finire come invece è finita.

È nella stagione 1984-85 che Il Principe si vede consegnare le chiavi del centrocampo della Roma, in una fase di delicato passaggio storico tra un'epoca che sta tramontando e una che stenta a vedere la luce, nella storia giallorossa.

Di lui si accorgono tutti, in breve tempo: è un centrocampista dal portamento elegante, con i tempi naturali e la visione di gioco del regista e con fondamentali da trequartista, a cominciare dal destro, delizioso. Lo stile di gioco lo fa apparire più lento di quanto in realtà sia; legge lo sviluppo dell'azione e ha in dote anche il lancio lungo, di quelli che pescano i compagni con i giri contati. Gli mettono gli occhi addosso in tanti, a cominciare da quella Juventus contro la quale mette a segno il suo primo goal in Serie A, al Comunale di Torino, nella gara di andata della stagione 1984-85. Il presidente Viola non vacilla di fronte alla cospicua offerta bianconera e confida al ragazzo di sognarlo sempre e comunque in maglia giallorossa; lui non vuole sentirsi dire altro che quello. È allora che comincia la Roma di Giannini, che ne diverrà via via capitano, simbolo, parafulmine. Anche capro espiatorio, alla fine.

 

La Nazionale di Giannini

 

Parallelamente al cammino romanista, comincia e procede anche quello in maglia azzurra, a cominciare dall'Under 21. Il CT degli azzurrini, Azeglio Vicini, lo considera già imprescindibile per lo sviluppo della sua manovra: fatalmente, quando sale al timone della Nazionale maggiore, fa di Giannini il volano dell'Italia che dovrà onorare il Campionato del mondo del 1990, che proprio nel Belpaese si disputa. Sarà la ribalta più importante della sua carriera, che lui onora con prestazioni sempre degne della massima rassegna calcistica mondiale, fino alla malinconica finale di Bari per il terzo posto, piazzamento conquistato contro l'Inghilterra di Platt e Gascoigne. Nella seconda partita del girone eliminatorio, allo Stadio Olimpico, tocca l'apice della sua esperienza in azzurro: Italia-Stati Uniti, partita che alla fine si rivelerà più ostica e rognosa del previsto ma il cui risultato matura già all'undicesimo minuto, quando su assist di Donadoni Vialli, al limite dell'area, con un velo geniale spalanca a Giannini l'ingresso in area, che culmina con il sinistro che fulmina il portiere Meola.

 

 

Quei gol romantici di Giannini

 

C'è, poi, un'altra sua rete, sempre realizzata con il mancino, alla quale i tifosi romanisti saranno per sempre legati: in ballo c'è molto meno prestigio ma tanto più pathos, l'onore della Roma e il suo futuro si trovano sull'orlo del precipizio, con la Serie A che sta franando sotto i tacchetti di una squadra che in campionato non vince da tre mesi e mezzo. Il 20 marzo del 1994, allo stadio Zaccheria di Foggia, lo psicodramma degli uomini guidati da Carlo Mazzone – che in un eccesso d'ira abbatte un cameraman con una manata – sembra essere giunto al punto di non ritorno: i padroni di casa, allenati da Zdenek Zeman, vanno in vantaggio dopo un quarto d'ora con De Vincenzo. Il buio d'una probabile retrocessione diviene oscurità totale quando si diffonde la notizia che allo stadio Giglio la Reggiana sta battendo il Torino. La Roma gioca il finale sui nervi, perseguendo un minimo di residua lucidità. A un quarto d'ora dal termine, una palla impazzita spiove al limite dell'area, dove Giannini addomestica il rimpallo e arma un sinistro teso al limite della disperazione, che batte sul palo e poi entra, cominciando a riscrivere una classifica che s'era fatta disperata. Il Principe corre, si sdraia sull'erba e, sommerso dall'abbraccio dei compagni, piange. Piange di gioia ma ancor più di rabbia, piange per la rivalsa colta dopo due settimane di gogna, per aver fallito, nel derby del 6 marzo, il rigore - conquistato dal giovanissimo Francesco Totti - che avrebbe pareggiato i conti col goal di Signori.

 

Le sue non saranno state, in maglia giallorossa, notti di sogni, e meno che mai di coppe dei campioni; raramente ha giocato con compagni all'altezza del suo pregio tecnico e da capitano ha sempre guidato una Roma di cuore, grinta e determinazione, lasciando un ricordo vivido di imprese sfiorate, che si trattasse di una finale di ritorno di Coppa Italia contro il Torino oppure di una rimonta quasi perfetta in un quarto di finale di Coppa Uefa, contro lo Slavia Praga.

Per tutti quei "quasi" che lo rendono creditore al pari degli stessi tifosi romanisti, andava scritta meglio e più solennemente la storia della sua militanza e della sua appartenenza; per gli stessi motivi, andrebbe sottolineato ancora oggi che a quelli come lui un posto nella dirigenza della Roma dovrebbe essere naturale riservarlo.

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