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Ripercorriamo la carriera ricca di trionfi del mediano bianconero nel giorno del suo 75esimo compleanno
«Da ragazzo il mio idolo era Sivori, giocavo coi calzettoni abbassati e anche più tardi non ho mai messo i parastinchi. Quand'ero nelle giovanili della Juve a Sivori ho fatto un tunnel e ci è rimasto male: “ragazzino, come ti permetti? - Non l'ho fatto apposta”, gli ho detto. Invece sì, era da mezzora che provava lui a farmi un tunnel, se l'era cercata. Da ragazzo, tra giovanili Juve, Savona e Palermo credo di aver indossato tutte le maglie, tranne l'1 e la 9. Sì, ho avuto la 10, tiravo rigori e punizioni. Ma un giorno ho visto Luis Del Sol e ho deciso che il mio vero ruolo era quello di mediano. E al mediano si chiedeva di marcare, essenzialmente. E il mediano che portava via la palla al 10, che molto raramente lo rincorreva, creava la famosa superiorità numerica» In queste poche parole si può capire già qualcosa di Beppe Furino, all’anagrafe Giuseppe. Di lui si è parlato molto, e sempre bene; ogni tifoso juventino che si rispetti prova un brivido nostalgico quando sente il suo nome. Beppe Furino era uno di quei calciatori di cui ci si innamora senza fatica, un “immenso agonista” come lo definì la storica penna del Guerin Vladimiro Caminiti, un gregario di centrocampo che faceva di muscoli e sudore il suo cavallo di battaglia, nonostante delle doti tecniche non da buttare, come testimoniano i diversi ruoli ricoperti in gioventù.
Furino nasce il 5 luglio di 75 anni fa a Palermo, ma il mestiere di suo papà, maresciallo della Guardia di Finanza, lo fa girare per mezza Italia fino ai quindici anni, quando arriva a Torino per rimanerci. Qui si fa le ossa nelle giovanili bianconere, diventando il pupillo di Renato Cesarini, che da quelle parti non è proprio l’ultimo arrivato. «Si metteva a bordo campo, mi incitava e mi suggeriva come giocare. Il guaio è che i suoi consigli erano del tutto contrari a ciò che mi veniva detto dagli allenatori. Ne veniva fuori un gran casino. Ma mi divertivo da morire ed ero orgoglioso di essere il suo pupillo» dirà anni dopo il ritiro ricordando quel periodo. Poi appena ventenne, nel 1966, i bianconeri lo girano in prestito prima al Savona, poi due stagioni più in là al Palermo, dove ritrova la città natìa.
Nell’estate del 1969, mentre Neil Armstrong mette piede sulla Luna, Furino viene richiamato a casa. Nella prima stagione, tra alti e bassi, non trova moltissimo spazio. Dal ’70 però, una serie di eventi lo portano al centro del progetto bianconero: in primis l’arrivo in panchina di Rabitti, proveniente dalle giovanili e che ben conosceva le qualità di Beppe, poi l’arrivo in società di Boniperti, che punta tutto sul giovane mediano. Con Armando Picchi prima e Vycpalek poi diventa parte integrante dell’ossatura della squadra torinese, perno della mediana. Furino si trasforma ben presto in uno di quegli juventini dentro e fuori dal campo, che vestono la maglia bianconera come una seconda pelle.
«È una forma di educazione sportiva, una conservazione di valore. Noi abbiamo la consapevolezza di cosa significa essere professionisti: significa anche non parlare male dei compagni, discutere tutto all'interno, significa andare in trasferta in ordine con la divisa sociale, pettinati, la cravatta. Sembrano sfumature, ma contano. Le squadre estere di grande tradizione si comportano nello stesso modo. Chiamiamolo stile, se volete: per me è una scelta di valori» dirà qualche anno più tardi. Con la seconda pelle bianconera passa ben 15 anni, ne diventa capitano e vince quasi tutto, e diciamo quasi perché nel 1973 non riesce per un soffio ad alzare la Coppa Campioni. Nel 1983, come gli elefanti che ormai anziani si allontanano dal branco per morire soli, capisce che il suo tempo nel rettangolo verde ha fatto il suo corso, lascia la fascia a Scirea e il 6 maggio 1984 dice addio al calcio giocato. Troverà poi spazio nel 1991 in società, come responsabile del settore giovanile, con cui otterrà ottimi risultati. Una vita calcistica per i colori bianconeri, lì al centro del campo a correre e a menar colpi, perché come era solito dire: «Alla Juve non basta la classe, ci vogliono le palle d’acciaio».
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