Olandesi di Germania

Olandesi di Germania

Era il 13 giugno 1974, cinquant’anni fa si giocò nell’allora Germania Ovest la decima edizione dei Mondiali. L’Olanda del calcio totale lasciò un segno indelebile anche, se alla fine, vinsero i tedeschi 

  • Link copiato

I Mondiali del 1974 compiono cinquant’anni. Tanti ne sono passati da quell’edizione dei Campionati del Mondo tenutisi nell’allora Germania Ovest, precisazione geografica che oggi ha un gusto vintage che sa di guerra fredda, spionaggio e blocchi contrapposti. Un torneo che si presentava ai nastri di partenza con un nuovo trofeo: la vecchia Coppa Rimet, infatti, come da previsioni regolamentari, era rimasta vincolata in eterno al Brasile che per primo, sugli altipiani messicani, si era effigiato del titolo di tricampione del mondo.

Un nuovo trofeo

La nuova Coppa che viene messa in palio è griffata Italia: realizzata dallo scultore milanese Silvio Gazzaniga, rappresenta due sportivi stilizzati che sostengono il mondo nel momento della felicità della vittoria. Alta circa 37 centimetri, dal peso di poco superiore ai 6 chili, è costituita d’oro massiccio a 18 carati. È un bel trofeo attorno alla quale i tedeschi fanno di tutto per organizzare una manifestazione senza sbavature e, soprattutto, sicura. Già, perché nel pieno degli anni Settanta la sicurezza è un problema serio: il terrorismo è una minaccia costante che proprio due anni prima a Monaco di Baviera, durante le Olimpiadi, aveva colpito in maniera durissima. Nella Repubblica Federale, quindi, vige la massima allerta per evitare il ripetersi di episodi analoghi.


Il flop azzurro

Le cose di campo raccontano di una competizione densa di spunti. Dalla prima partecipazione alla fase finale dei mondiali per le nazionali di Australia e Haiti al clamoroso flop dell’Italia, vicecampione in carica e mestamente eliminata già nella fase a gironi dalla sorprendente Polonia e da un’Argentina non irresistibile. Gli azzurri cadono nel vuoto di un mancato ricambio generazionale e di una spedizione nella quale l’unità di intenti è una chimera che si perde nei fumi degli egoismi individuali. Già nella partita d’esordio contro Haiti i segnali non furono incoraggianti: dalla rete realizzata da Emmanuel Sanon, che pose fine all’imbattibilità della porta italiana che durava da 1.142 minuti, al successivo gesto di insofferenza di Chinaglia nei confronti di Valcareggi, mandato a quel paese per una sostituzione non gradita, gli elementi che non facevano presagire un buon mondiale abbondavano. La partita decisiva con la Polonia, nella quale naufragò anche un tentativo di combine, apri la porta del fallimento a quella spedizione da dimenticare per la nostra nazionale, che in Germania chiudeva l’epoca degli eroi di Messico 70.


L’Olanda di Cruijff

I protagonisti di quell’edizione saranno altri. Come la Polonia di Szarmach, Deyna e Lato, già vincitrice due anni prima del titolo olimpico, che finirà terza. Una selezione solida e dai valori tecnici rilevanti, non sufficienti, comunque, a orientare su di sé le maggiori attenzioni del torneo, che vede sbocciare con fragore il calcio totale dell’Olanda del Pelè Bianco, Johann Cruijff. Già dal 1970 la Coppa dei Campioni aveva trovato fissa dimora nella nazione dei mulini a vento: cominciò il Feyenoord, proseguì l’Ajax con una tripletta nella cui sequenza caddero anche le ambizioni di Inter e Juventus. Le vittorie dei club olandesi anticiparono l’avvento degli Oranje in terra tedesca. I ragazzi di Rinus Michels mostrarono un nuovo modo di interpretare il calcio: un mix esplosivo di tecnica, forza fisica e schemi innovativi ammaliò i calciofili di tutto il mondo, che riconobbero in Johan Cruijff un fuoriclasse atipico che sapeva unire giocate individuali di altissima scuola, visioni di gioco illuminanti e capacità dinamiche inusuali nei giocatori di talento come lui.
La nazionale olandese è l’icona calcistica dei cambiamenti che vive in quel tempo il mondo occidentale: la ricerca di nuovi paradigmi di relazione e comportamentali, la voglia di libertà, la ricerca di modalità espressive originali e fuori dagli schemi passano sui campi di gioco attraverso le sgargianti maglie arancioni indossate da ragazzi che, più che calciatori, sembrano rockstar scese da un palco per fare un po’ di sport. Capelli lunghi, fisici asciutti ed eleganti, sguardi fieri, Ruud Krol, Johan Neeskens, Johnny Rep e gli altri ruotano perfettamente intorno alle idee di un rivoluzionario come Cruijff, facendo scoprire al mondo un universo calcistico fino ad allora sconosciuto. Quella marea arancione arriva alla finale di Monaco che appare inarrestabile. Nemmeno i padroni di casa sembrano attrezzati per trovare le contromisure adatte a fronteggiare il vento di novità portato dagli olandesi.


La vittoria dei tedeschi

La finale dell’Olympiastadion, però, troverà il modo di dare una svolta inattesa a quel decimo capitolo della storia dei mondiali. Ai tedeschi, esteticamente meno accattivanti dei loro avversari ma non per questo inferiori, tocca subire l’avvio travolgente degli Oranje, che palleggiano a tutto campo per un minuto filato e conquistano subito un rigore che li porta in vantaggio. Sembra l’inizio di una marcia trionfale, che non si compie per le qualità che avevano portato i bianchi di Helmut Schön a vincere il titolo europeo due anni prima: concretezza, solidità mentale, capacità di adattamento e indubbie qualità tecniche. Sono sufficienti quarantuno minuti a ribaltare il risultato che, tra incredulità e nervosismo, Cruijff e gli altri non riescono a riprendere. A vent’anni dal miracolo di Berna, la Germania Ovest torna a scrivere il suo nome sull’albo d’oro della Coppa del Mondo. All’Olanda il premio lo consegnerà il tempo: a mezzo secolo di distanza la forza innovativa di quella squadra è ancora fresca nella memoria di chi l’ha vissuta mentre i suoi principi di gioco sono alla base dei concetti che ispirano il calcio del XXI secolo.

Condividi

  • Link copiato

Commenti

Loading...





















Leggi Guerin Sportivo
su tutti i tuoi dispositivi